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Conciliazione vita-lavoro: buone o cattive pratiche?

In generale, la conciliazione vita-lavoro può essere riassunta nell’attenzione per la persona e il suo benessere nei diversi ambiti relazionali – lavorativo e personale -, con l’obiettivo di dare a uomini e donne gli strumenti necessari, nei diversi momenti della vita, per realizzarsi dal punto di vista personale.
A livello europeo, si ritiene che le politiche di conciliazione possano:

  • – incidere positivamente sulla riduzione della disparità salariale di genere;
  • – favorire l’occupazione e la ripresa economica;
  • – avere un impatto positivo sulla crescita demografica;
  • – permettere alle persone di assumere le proprie responsabilità familiari.

Negli ultimi anni il tema ha ricevuto una certa attenzione, date anche le iniziative legislative nazionali ed europee, gli incentivi da parte di diverse Regioni e le iniziative intraprese autonomamente da alcune aziende.

A livello aziendale, le pratiche di conciliazione vita-lavoro possono essere di 3 tipi:

  1. flessibilità, cioè una maggiore autonomia di scelta (part-time, telelavoro, job sharing, orario, congedi integrativi per motivi familiari;
  2. servizi, come ad esempio cura di familiari non autosufficienti (bambini e anziani), time-saving (lavanderie, consulente finanziario, servizi postali);
  3. supporto finanziario, tra cui assicurazioni integrative, bonus bebè, voucher per la cura di familiari non autosufficienti.

Tali pratiche, nel medio lungo termine, hanno dei vantaggi per:

  • i lavoratori, non solo in ottica di miglioramento della propria qualità della vita, ma anche in termini di benefit di costoso accesso sul mercato, senza subire il peso della tassazione;
  • l’impresa, in quanto incrementa la produttività del dipendente e la sua fidelizzazione;
  • il territorio, che si avvale delle imprese per l’erogazione di servizi previdenziali, assistenziali, sanitari e culturali, (una delle prerogative dello stato sociale).

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Lavoro agile: nuovi modi di lavorare e collaborare

Lo smart working, anche noto come “lavoro agile”, si riferisce a tutte quelle forme di flessibilità (spaziali, temporali, metodologiche) applicabili all’interno di un organizzazione.
Costituisce un evoluzione rispetto alle forme di telelavoro che, nato e normato per venire incontro alle esigenze di particolari categorie di lavoratori, come le donne con figli o le persone con disabilità, si era dimostrato uno strumento che portava all’isolamento e al rischio di esclusione dall’avanzamento di carriera per chi ne usufruiva.

Di recente un gruppo di parlamentari ha depositato una proposta di legge, con l’intento di migliorare la legislazione esistente sul telelavoro, ormai obsoleta in quanto risalente a un periodo in cui non esistevano le tecnologie attuali.
In Italia, dove il problema delle capacità di innovazione e dell’aumento della produttività delle imprese è particolarmente evidente, lo smart working riveste un certo interesse e, infatti, sul web sono presenti molti contributi che ne sottolineano i vantaggi e l’apporto innovativo.

Come riportato da un articolo su Repubblica, secondo il Financial Times, il lavoro fuori dall’ufficio riguarda il 14% dei lavoratori inglesi e il 20% degli americani. Dalle scrivanie e dall’ufficio tradizionale spariscono cartoline, foto, biro, sostituite da smartphone, tablet, PC portatili. Le nuove postazioni di lavoro possono stare dovunque, con l’impiego di spazi molto ridotti.

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