Sono in molti a ritenere che le imprese che adottano politiche di responsabilità sociale hanno un conseguente aumento nei livelli di performance finanziaria. In realtà, ciò che spesso si evidenzia è una correlazione tra i 2 aspetti, il che non implica una relazione di causa effetto, per cui la seconda sarebbe diretta conseguenza della prima. Conoscere esattamente in che rapporto…
Quando si parla di responsabilità sociale di impresa si ragiona spesso solo sugli aspetti economico-finanziari, come la produttività, la performance e il ROI (Return on Investment) per l’organizzazione. Meno noti agli HR manager e meno studiati dai ricercatori sono gli aspetti psicologici a un livello micro, cioè cosa implichino le politiche di RSI per i singoli dipendenti.
Analizziamo meglio questi aspetti, grazie anche al lavoro di Bauman e Skitka (2012). Corporate social responsibility as a source of employee satisfaction. Re-search in Organizational Behavior (Scarica)
In Italia, come leggiamo spesso suigiornali, cresce l’interesse per le politiche di responsabilità sociale d’impresa (RSI), soprattutto da parte delle grandi imprese, ma il fenomeno è in crescita anche nelle realtà organizzative più piccole. Uno degli elementi che risulta particolarmente importante per la RSI è sicuramente il capitale sociale, di cui abbiamo già parlato (vd per esempio Capitale sociale e performance delle piccole imprese) e che qui riprendiamo da una prospettiva diversa.
Numerosi studi (per esempio Lins, Servaes e Tamayo 2017) ci dicono che durante la crisi finanziaria del 2008-2009 negli USA, le imprese con elevato capitale sociale, misurato come intensità delle iniziative di RSI, presentavano livelli di rendimento delle azioni superiore di 4-7 punti percentuali, rispetto alle imprese con basso capitale sociale. In generale, le imprese con alti livelli di RSI hanno registrato maggiore redditività, crescita e vendite per dipendente rispetto a società a basso livello di RSI e hanno aumentato il debito. Questa evidenza suggerisce che la fiducia tra l’azienda da una parte, e i suoi stakeholder e gli investitori dall’altra, costruita attraverso investimenti in capitale sociale, ripaga quando il livello generale di fiducia nelle imprese e nei mercati subisce uno chock negativo
Mercoledì 15 novembre è stata approvata in parlamento la legge sul whistleblowing
Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, che prevede la tutela per i dipendenti che denunciano reati o irregolarità nelle imprese in cui lavorano (pubbliche private o partecipate), sia dell’identità quando l’indagine è in corso sia da eventuali ritorsioni, mobbing o licenziamenti.
La casistica delle irregolarità è piuttosto ampia, come abbiamo modo di verificare spesso sui media: si va dai casi di corruzione (tangenti, uso di fondi aziendali per scopi personali), alla spinta ai dipendenti bancari affinchè convincano i clienti a investire su titoli tossici, passando per la manomissione dei software che rilevano le emissioni inquinanti e una serie di comportamenti più lievi ma comunque illeciti.
Cosa cambierà con la legge? e, soprattutto, è sufficiente una legge per inibire comportamenti illeciti sul posto di lavoro?
Per scoprirlo, andiamo un po’ a vedere cosa succede nei Paesi che sono più avanti dell’Italia, come Regno Unito e USA, dove è addirittura previsto un compenso per i whistleblower.
Ostacoli alle denunce
Come sottolineano diversi studi apparsi su Harvard Business Review, per esempio Mayer (2016) e Rajgopal (2017), chi denuncia irregolarità nell’organizzazione in cui lavora, spesso subisce punizioni o ritorsioni, non solo nella società di appartenenza, ma anche quando tenta di trovare un impiego da un’altra parte.
Inoltre, si sa poco o nulla su come le aziende rispondono internamente alle denunce, perchè sono abbastanza restie a comunicare all’esterno le modalità specifiche con cui avviano le indagini, dopo la segnalazione di un loro dipendente.
Infine, molti manager lamentano il fatto che la maggior parte delle segnalazioni siano solo sciocchezze. Respingere queste preoccupazioni, però, è un errore, perchè i dipendenti sono, in realtà, spesso in grado di cogliere un singolo frammento di un problema ben più grande e diffuso.
Questa tendenza del management a ignorare singole denunce rafforza una cultura del silenzio, in quanto i dipendenti si sentono in dovere di presentare casi di illeciti solo quando hanno delle prove verificabili. Il che, alla fine, si traduce in un numero inferiore di segnalazioni.
Tra un’impresa che si prende cura dei propri dipendenti, acquista solo da fornitori responsabili e incoraggia i propri manager a comportarsi in modo eticamente corretto e un’altra, nota per il rilascio di inquinanti tossici, la chiusura periodica degli stabilimenti e il licenziamento frequente dei dipendenti, qual è la più esposta al rischio reputazionale?
La risposta non è scontata.
Da un’indagine pubblicata su CR Magazine condotta a livello globale su 4000 aziende, è emerso che il rischio reputazionale è maggiore per le imprese che divulgano le iniziative di RSI mentre non presenta alcuna correlazione o risulta molto bassa, tra le imprese che hanno rivelato pochi dati di se stesse.
Rischi reputazionali
Nello specifico, sono maggiormente esposte ai rischi reputazionali quelle imprese che hanno più fonti per il rating di sostenibilità (per esempio sono oggetto di attenzione da parte degli analisti di investimenti responsabili, vengono monitorate da numerose ONG o da siti che si occupano di certificazione o richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica.
Quando si parla di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) si corre il rischio di trattare sempre degli stessi temi, in maniera un po’ superficiale, mettendo per esempio l’accento sui grandi vantaggi per le imprese. Esistono però una serie di problemi spesso sottovalutati o per niente affrontati.
Seguendo il discorso di Cooms e Holladay nel loro libro Managing Corporate Social Responsibility. A communication approach pubblicato da Wiley nel 2011, evidenziamo alcuni problemi e vediamo da dove può partire un imprenditore o un manager che voglia introdurre politiche socialmente responsabili nella sua organizzazione.
Come detto in post precedenti, la RSI riguarda non solo o non tanto l’impresa, ma anche i suoi stakeholder, che dovrebbero adottare un atteggiamento di scetticismo legato a una dose moderata di ottimismo, nel considerare qualità positive e negative della RSI.
Nel 2005 usciva il libro L’impresa irresponsabile del sociologo Luciano Gallino, che in termini molto semplici, comprensibilissimi anche per i non addetti ai lavori, ripercorreva l’evoluzione delle società per azioni nell’era moderna, spiegando come si fosse potuti giungere ai grandi scandali, quali il crac Enron negli USA e quello Parmalat in Italia.
Scriveva il prof. Gallino:
Si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività. Tra queste vanno considerate: le strategie industriali e finanziarie; le condizioni di lavoro offerte ai dipendenti nel paese e all’estero; le politiche dell’occupazione; il rapporto dei prodotti e dei processi produttivi con l’ambiente; l’impiego dei fondi che le sono stati affidati dai risparmiatori in forma di azioni o obbligazioni; la redazione dei bilanci; la qualità conferita ai prodotti; i rapporti con le comunità in cui opera; le localizzazioni o delocalizzazioni delle attività produttive; il comportamento fiscale. Inutile precisare che su questo metro esistono molte imprese che non si possono definire irresponsabili, né quelle qualificabili come tali lo sono tutte riguardo alle medesime attività o in uguale misura e durata.
Difficoltà di attuazione
La Comissione Europea (EC 2011, A renewed EU strategy 2011-14 for Corporate Social Responsibility)
definisce, in modo sintetico e onnicomprensivo, la RSI come la “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. In tale definizione rientra quindi il rispetto per la legislazione
(internazionale e statale), l’attenzione per le questioni sociali e ambientali, la trasparenza, il rapporto con gli stakeholder.
La RSI nell’UE
Come descritto da Paolo Pantrini su SecondoWelfare
la RSI ha due dimensioni.
1. La dimensione interna. Riguarda:
- la gestione delle risorse umane, che comprende la work-life balance, la parità di retribuzione e opportunità di carriera di genere, la non discriminazione per ragioni etniche, l’assunzione di categorie svantaggiate;
- la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro;
- la gestione delle trasformazioni industriali;
- l’impatto ambientale.
2. La dimensione esterna. Fa riferimento al rapporto con tutti gli stakeholder (comunità locale, partner commerciali, fornitori, consumatori), alla promozione dei diritti umani e dell’ambiente
a livello planetario.
In sintesi, la politica dell’UE sulla R.S.I.:
- si basa sul principio che l’intervento pubblico deve essere estremamente ridotto, non deve minare la volontarietà delle imprese, ma disegnare un quadro generale che favorisca comportamenti responsabili sul piano sociale e ambientale, con particolare attenzione alla qualità e alla convergenza delle procedure adottate, garantirne la verifica indipendente e sostenere le buone pratiche;
- suggerisce l’integrazione dei principi della R.S.I. in tutti gli ambiti delle politiche comunitarie.
Il 6° Studio sugli Investimenti Sostenibili e Responsabili in Europa, condotto dal Forum Europeo per gli Investimenti Sostenibili e Responsabili (EUROSIF) nel 2014 ha analizzato le strategie di R.S.I., i trend in Europa e in 13 Paesi europei. I principali risultati emersi sono:
- tutte le strategie di R.S.I. hanno registrato tassi di crescita a doppia cifra tra il 2011 e il 2013;
- le strategie di esclusione diventano mainstream. Tra queste le più note riguardano la rinuncia a investimenti su bombe a grappolo e mine antiuomo;
- le strategie di engagement e azionariato attivo fanno progressi significativi, soprattutto in alcuni Paesi come l’Italia, in cui si registra una crescita pari al 193%;
- l’Impact investing, preso in considerazione per la prima volta, è la strategia che cresce più rapidamente, con una percentuale del 132%, pari a 20 miliardi. Al suo interno, si stima che la microfinanza copra il 50% degli attivi;
- le pratiche di integrazione di fattori non finanziari nelle decisioni sono cresciute del 65%. Tra queste la considerazione di elementi non finanziari negli investimenti e di analisi e ricerche non connesse ad aspetti monetari;
- parallelamente all’aumento della sensibilità diffusa per i temi ambientali, sociali e della governance, l’attenzione si sta spostando dall’utilità della R.S.I. dal punto di vista finanziario, al come il suo impatto si possa quantificare e misurare.